Abbandonato il Parnaso con tutte le meravigliose fanciulle che lo abitano, l’artista contemporaneo ricerca le sue muse fra strade bagnate e asfalti maleodoranti; in questi casi può capitare che l’ispirazione assuma le forme non proprio aggraziate d’un camion. È quanto è accaduto a Renato Mambor (Roma, 1936), artista dell’avanguardia italiana anni ’60, al quale Napoli dedica una ricca antologica presso gli spazi di Castel Sant’ Elmo, a cura di Achille Bonito Oliva.
Mambor comincia la sua ricerca artistica nell’Italia sospesa tra sogno americano e disincanto derivato dal fallimento dei tentativi di conciliazione tra le diverse culture europee, dopo che il conflitto mondiale prima e la guerra fredda poi avevano diviso società e smembrato geografie. Come l’Europa, l’arte di Mambor non può più conciliare i diversi aspetti della vita, e la sua ragion d’essere finisce col risiedere unicamente nella forma.
È in un clima tale che il camion diventa musa (l’opera che segna questo sodalizio, Segnale Rosso su Giallo Blu, in mostra è accostata ad altre più tarde, esplicitando in tal modo il suo essere progenitrice di tutta la poetica del romano): l’artista, infatti, recupera, dalla segnaletica per il trasporto su quattro ruote l’idea di adottare segni impersonali, riconoscibili in quanto tali, in-identificativi e tuttavia capaci di veicolare una funzione informativa. Il loro esser simboli, dunque, non ha carattere funzionale, bensì sostanziale, perché è a partire dal semplice assunto formale che lo spettatore può vestire il segno di una valenza che arricchisce la sua oggettività.
Ne è un esempio Separé, installazione-scultura in cui sagome umane atteggiate in vario modo si aprono su pannelli retrostanti, su cui sono applicati materiali diversi. Ciascuna coppia appare come un microcosmo incompiuto: i vari elementi che la costituiscono sono in attesa di relazione: la possibilità per la sagoma e l’oggetto di interagire è data unicamente da tutte le loro possibili interpretazioni. “C’è sempre”, dice l’artista, “un qualcosa che lo spettatore deve completare. La mia opera comincia da me e finisce nell’occhio dello spettatore”.La volontà di chiamare quest’ultimo a completare il formalismo dell’opera, aggiungendo valori nuovi alla forma data dall’artista, la ritroviamo in Karma Immutabile e Ombra Immutabile - entrambe presentate in occasione della 52esima Biennale di Venezia -, dove accostare sagome di uomini-ombra bianche e nere, positive e negative, è funzionale alla possibilità dello spettatore di ricondurle alla sostanziale unità della matrice, “nella quale solo esiste la possibilità di un mutamento” che le riguardi.
Dal segno iconico, Mambor passa a delegare al linguaggio il compito d’impaginare nuovi rapporti tra le immagini. I Diari - quelli personali del 1967 e del 2007, passando per quelli del 1969 realizzati in collaborazione con gli amici artisti - sono opere imperniate su un attrito fra immagine immobile, costituita da un oggetto facilmente riconoscibile nonostante la sua sintesi formale, e azione rivelata dal titolo, solitamente un verbo coerente con la destinazione d’uso dell’oggetto stesso.
In questo caso il funzionamento razionale dell’opera si compie nell’atto stesso del suo essere percepito. Ancora una volta, il simbolo si demitizza, questa volta superato dal linguaggio, che ne suggerisce una complessità sempre e soltanto formale, imponendosi come necessario a completare il senso di un’arte che, altrimenti, rimarrebbe oggetto inerte, pigra superficie.
L’idea del movimento mentale come necessità per risalire al valore dalla forma del simbolo si concretizza in un atto fisico nella scultorea Circolare, una sorta di lanterna magica intorno alla quale l’uomo-bambino è chiamato a correre. Per ricevere l’impressione del movimento di un anonimo viandante disegnato sulle pareti interne dell’esagono.
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