genere: arte contemporanea, personale
comunicato stampa |
| Un luogo. I suoi abitanti. I loro idoli. Questi i termini costituenti della narrazione che l’artista torinese Alessandro Caligaris propone attraverso le sue opere recenti. Espressioni figurative tanto della spettralità, quanto dell’allegoria, di una possibile civiltà tra rovine e residui dei suoi culti anonimi. Allusioni visive alla nostra realtà sociale contemporanea. Con una evidente attenzione rivolta a sottolineare lo stato di crisi persistente in tutte le rappresentazioni proposte, Caligaris mette in primo piano la propria esigenza di tradurre visivamente la marginalità, il disfacimento, l’urgenza del vivere e del sopravvivere. Analisi e autoanalisi sono i due parametri su cui si basa il lavoro in continua evoluzione del giovane artista. Da intendersi come il secondo capitolo di una cronaca dell’idolatria e la popolarità della religione nella contemporaneità, questo nuovo ciclo di opere è infatti il risultato di un’operatività ansiosa che impegna Caligaris da diversi anni attraverso continue interrogazioni sui rapporti tra mito e ragione. A originare la sua ricerca, dunque la sua produzione iconica, è certamente la possibilità, fonte primaria del «fare arte», di trasformare un’idea e/o una tensione emotiva in una raffigurazione al fine di determinare un riverbero esperienziale nel fruitore. Ma altrettanto quella di poter elaborare opere che risultino l’innesco per un intenso processo immaginativo per tutti coloro che ne potranno fare esperienza avendo almeno due possibilità: perdersi nei dettagli della rappresentazione, abilmente formalizzata mediante la tecnica démodé del disegno, in cui la penna a china e l’acquerello si incontrano su superfici bianche luminose; intraprendere una riflessione riguardo al processo creativo che porta da un concetto (un’intenzione, suggestione o emozione che sia) a un determinato prodotto visivo. Le opere inquiete di Caligaris manifestano un messaggio in particolare che egli intende trasmettere: rispetto allo stato attuale della realtà c’è ben poco da ridere. Anche se attraverso l’arte sembrerebbe possibile accostare alla catastrofe la metafora e l’allegoria, questo non è comunque sufficiente per mascherare o attenuare l’evidente stato di crisi. Semmai tale processo creativo è al contrario garanzia per il suo continuo incremento. Caligaris si espone con le sue opere dando sfogo a un personalissimo sguardo rivolto all’esistenza collettiva, entrando così in sintonia con la riflessione attuale di un altro artista, lo scrittore britannico Ian McEwan: «Siamo allenati alle riflessioni sulla mortalità del singolo: questa è anzi l’energia che informa il racconto delle nostre esistenze.» (McEwan 2007: 4). Parafrasando lo scrittore, diremmo allora che Caligaris affronta la mortalità attraverso una serie di conversazioni private, e la affronta esattamente in veste di tensione creativa. Questo determina il ritratto, al contempo spietato e sarcastico, che egli propone. Una visione allegorica della realtà in cui la contemporaneità è rappresentata come uno spazio asettico, dal quale si stagliano figure di esseri umani corrosi e concupiscenti, cumuli di oggetti e macerie di un mondo possibile che scuote l’attenzione di chi lo osserva. Tra catastrofe e farsa, Caligaris sviluppa così la sua analisi attraverso quella «narrazione visiva» che caratterizza la sua attività, in cui vengono polarizzate tanto la fragilità del vivere quotidiano e la difficoltà dell’impatto con la realtà, quanto, in maniera ancora più dichiarata e diretta, una critica ai processi di descrizione e rappresentazione che contraddistinguono direttamente l’arte. E questo è probabilmente il tratto più nobile della sua attività artistica, basata essenzialmente su momenti salienti quali: la selezione iconica, il citazionismo, l’attività del collage, la ripetizione di una temibile visione catastrofista che egli implementa in ognuna delle sue opere. Tecnicamente tale processo corrisponde a tre fasi di lavorazione differenti: alla prima, quella in cui o viene realizzato un primo schizzo a china, matita e/o acquerello, o vengono riprese a mano foto di luoghi o persone, segue una seconda in cui l’immagine viene quindi acquisita mediante uno scanner, leggermente filtrata con tecniche digitali, strutturata mediante il collage, quindi stampata a plotter. Terza fase è quella in cui Caligaris interviene sulla stampa servendosi di penne a china, penne a sfera o pennarelli. Comuni «strumenti da scrivania» essenziali per le sue opere. Negando una conclusione al suo intenso lavorio creativo, Caligaris tenta di delineare tale sviluppo narrativo, basato sulla rappresentazione di futuri possibili, lasciando però trasparire con forza la propria ipotesi apocalittica rispetto al presente. Ritraendo rovine e personaggi scarni e surreali, oltre al tentativo di critica rivolto all’arte stessa, Caligaris non perde mai di vista il rimedio ultimo a cui aspirano coloro che soffrono: la salvezza, raggiungibile attraverso il culto e l’idolatria. Bersaglio privilegiato è dunque quella che egli stesso definisce come una «ricerca spasmodica dei più svariati culti popolari» nella contemporaneità. Una ricerca tradotta simbolicamente dagli idoli, designati come anonimi. Due le motivazioni date dall’artista riguardo a questa scelta. La prima: dare risalto al processo di ri-celebrazione dell’idolo intendendolo come oggetto nuovo di una vecchia narrazione pop, la religione. La seconda: l’anonimato degli idoli è scelto in riferimento all’appellativo fittizio Anonymous, ossia la ormai celeberrima firma adottata da numerosi attivisti che intraprendono azioni collettive di denuncia e disobbedienza istituzionale, seguendo il principio di un’identità condivisa che agisce con proteste e «attacchi creativi», tanto in internet quanto praticamente nella realtà sociale.
Fare arte e criticarla, sono i due obiettivi che si pone Caligaris interrogandosi sui rapporti tra realtà e finzione. Mostrando una società arresa, in condizioni di precarietà, egli intende mettere sul banco di prova (o più esplicitamente, degli imputati) l’arte stessa, intesa prima di tutto come processo creativo di elaborazione delle rappresentazioni. Quindi accusarla di essere riverbero formale di una condizione esistenziale compromessa dalla più evidente banalità ininterrotta che contraddistingue i nostri tempi, ma altrettanto dallo stato di allarme per una possibile catastrofe imminente. A palesarsi è pertanto il pensiero secondo cui lo sguardo sul reale non corrisponde evidentemente a un possibile prodotto artistico e tanto meno, a una pretesa giustizia che l’arte avrebbe forse il potere di raggiungere. E questo rimanda a una riflessione che poggia su un parallelo, peraltro più che noto alla storia del pensiero, tra arte e filosofia. Il richiamo è ancora a quella visione catastrofista e a quello scrupoloso esame dell’idolatria religiosa che, anche in questo caso, l’artista potrebbe trovare tradotto nel seguente passo: «ha poca importanza chi abbia torto: a salvarci non verrà nessuno. Dovremo pensarci da soli.» (McEwan 2007: 47). Citazione e collage risaltano nell’attività di Caligaris. Stimolazione intellettuale per queste sue recenti opere sono, come egli stesso ammette, diverse analisi contenute nel recente Reality Hunger, brillante manifesto contemporaneo su realtà, finzione e arte pubblicato nel 2010 dallo scrittore americano David Shields. Un testo costruito esattamente mediante un’operazione di collage, al fine di esprimersi servendosi tuttavia di parole altrui. Allo stesso modo, Caligaris sviluppa una serie di riflessioni, seppure senza parole, attraverso un immaginario carico di ritagli e citazioni rilevanti per le sue opere. «Che cos’è l’appropriazione nell’arte? È come quando rubi ma lo fai per principio, perché in un altro contesto il significato cambia.» (Shields 2010: 111). Ecco allora che uno tra gli abitanti è L’eremita: un’apparente signora dall’età incerta, con gli occhiali e i capelli raccolti, sopra la testa della quale spicca un’aureola. Ritratta su una sedia a dondolo tiene tra le braccia un tronco di legno e richiama alla memoria uno dei personaggi più intriganti, e al contempo bizzarri, di un’altra storia. Vale a dire la Signora Ceppo, personaggio di finzione inventato da David Lynch e Mark Frost per quella che può benissimo essere considerata come la più nota opera d’arte surrealista di fine secolo: Twin Peaks. Dai toni cromatici a metà tra il nero e il marrone che caratterizzano l’eremita, si passa a opere in cui il tratto costituente risulta ben più luminoso. Nel predicatore, opera delle stesse dimensioni (80 x 110 cm), spicca al centro dell’inquadratura una strana coppia, composta da un uomo di mezza età e forse una bimba dalle ignote sembianze che lo tiene per mano. L’uomo si smaschera mostrando il proprio volto, rievocando casualmente quello del noto attore americano Christopher Walken. La sua è la stessa maschera della bambina, da lupo tratto dai Cartoon. Entrambi vestiti con tessuti esili, lembi consumati, si lasciano sullo sfondo un contesto naturale in cui primeggia una collina con un rogo fumante, forse una zona morta, da cui si stanno allontanando. Il discepolo è invece il ritratto di un giovane ragazzo in divisa e calzoncini corti, che guarda fuori campo, portando sulla sua testa un cappello che ricorda le note orecchie di Mickey Mouse. Stralunato e sproporzionato, con il volto paonazzo, il discepolo lascia sullo sfondo bianco e intonso dietro di sé una traccia, quasi un liquame che sporca e macchia la superficie dell’opera nel sua ampiezza (70 x 165 cm). Marcando così una discordanza con il vuoto impersonale in cui appare. Lady Madonna è l’opera che porta agli estremi la tensione veicolata nell’intero ciclo, facendola sfociare in un’acclamata drammaturgia visiva. Su uno sfondo freddo, una giovane donna scheletrica stringe tra le sue grandi mani una colomba, guardando al di là della superficie dell’opera in direzione del possibile sguardo del fruitore. Al vuoto bianco dello sfondo si accorda la brillantezza del corpo della donna, tracciato mediante una tinta cromatica che in prevalenza tende al ciano e a tratti viene interrotta da brevi tracce rosse. Una presenza inquietante, ma altrettanto caritatevole, come suggeriscono postura, espressione del viso e sguardo. Gli idoli presentati sono cinque. Anonimi, come si è detto. La prima peculiarità a risaltare è la loro tinta cromatica: toni freddi, in cui spiccano il verde e il ciano, toni caldi tra il rosso e l’arancio, contraddistinguono queste opere che sono vere e proprie pale d’altare contemporanee. Ogni icona, strutturalmente riconoscibile altrettanto come arco a sesto acuto, è oggetto per il culto e l’adorazione. In ognuna delle pale l’idolo, viene sempre raffigurato riproponendo un soggetto tradizionale dell’iconografia sacra: la Madonna con Bambino. Nei diversi casi l’idolo è sorretto da o integrato in, una costruzione architettonica in cui spiccano bizzarri personaggi surreali che portano maschere allusive alle pratiche sessuali estreme, insieme a simboli arcaici. Chiude il ciclo degli idoli anonimi un trittico, elaborato a partire dalla struttura di un’opera nota: il polittico (1472-3) realizzato dal pittore quattrocentesco Carlo Crivelli per la Cappella del Sacramento della Cattedrale di S. Emidio, a Ascoli Piceno. Sembrerebbe dunque che a tutte queste citazioni corrisponda l’interesse di Caligaris per l’arte del passato. Per una sua rievocazione in quella del presente. Questo è una scelta solo in parte verificata. Poiché a ben vedere egli agisce in piena sintonia con la seguente osservazione: «Solo l’artista ambiguo comincia dall’arte, quello vero prende il materiale altrove: da se stesso.» (Shields 2010: 242). A confermarlo sono infatti ulteriori opere in cui primeggia il collage. In Barricata viene raffigurata su un’ampia superficie (150 x 230 cm) un’accumulazione di oggetti che si presta per riflettere su uno specifico dettaglio: un giovane con il cappello da Napoleone che sta fuoriuscendo da un cunicolo, forse dopo un complesso percorso che aveva intrapreso per lasciare un contesto caotico e affollato. Giunto all’esterno, sopra di lui vi è altrettanto caos. Tra i presenti che si mimetizzano in mezzo ai residui, qualcuno è armato, altri meditano o sono appesi nel vuoto, altri ancora sembrano compagni di viaggio di un cyber-coniglio che osserva la scena silenziosamente nell’ombra e riporta alla mente tanto Frank, il coniglio immaginario amico di Donnie Darko, quanto il bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie. Sottotitolo della Città dei folli è Le rovine della nuova Sion. Presentandola come una nuova città di David, Caligaris rievoca in un’opera dalle grandi dimensioni (150 x 315 cm) la difficile situazione geopolitica, tra Israele e Palestina, ma altrettanto in quelle numerose aree geografiche in conflitto nel nostro mondo contemporaneo. «Poiché viviamo in un mondo prodotto e confezionato, noi bramiamo il «reale» o qualcosa che gli assomigli. Vogliamo opporre qualcosa di vero a tutta quella artificialità: brividi autobiografici o attimi incorniciati o filmati rubati, nella loro apparente improvvisazione.» (Shields 2010: 99). Il collage visivo è infatti ancora più marcato. In primissimo piano sulla destra dell’opera, si impone una orribile zanzara accanto alla quale si trova un volto celebre della lotta sociale contemporanea: l’attivista birmana Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace 1991. Il ritratto deriva da un’immagine ottenuta a sua volta dalla scansione di una fotografia, successivamente effettata e stampata, a cui sono state aggiunte due orecchie da coniglio, quasi da playmate come suggerisce il logo sulla spalla sinistra, insieme a un’improbabile aureola di legno. Lo sguardo della donna è rivolto verso l’alto. Fuori campo. Oltre l’opera. Simmetricamente, sul lato sinistro, si trova un’altra zanzara a poca distanza dal pastore protestante tedesco Thomas Muntzer, il cui volto sembra rievocare per un verso quello di Karl Marx, per un altro quello di S. Pietro. Citazione verificabile considerando soprattutto la chiave che pende dalla sua bocca. Forse un enigma, la cui forza visiva viene incrementata altrettanto dalla figura retrostante: quella dell’anabattista olandese Jan Matthys che, con il volto mascherato, tiene in mano non una lancia ma un pennacchio spolverino utile per le pulizie domestiche. Alle spalle di Muntzer e Matthys, tra le macerie sulla parete di una costruzione fatiscente si notano le tre gabbie esposte sulla Cattedrale di Münster. Un richiamo alla storia a partire dalle immagini. Un riferimento all’ «esposizione» degli anabattisti al popolo ludibrio.
Queste rovine, tra le quali vi sono anche altri personaggi, tra i quali un bizzarro e spaesato Don Chisciotte, rievocano anche il disastro dell’11 settembre. Ancora un richiamo alla realtà. Ancora una critica all’arte. A partire da questi frammenti visivi proposti da Caligaris, risuonano così alcuni passi di una suggestiva rilettura attorno alle immagini e le rovine, proposta in precedenza dal filosofo francese Jacques Derrida. Osservando che il disegnatore risulta sempre in preda all’«insaputo», poiché «tra la cosa disegnata e il tratto disegnante l’eterogeneità resta abissale» (Derrida 1990: 63-4), egli acutamente osservava: «La rovina non sopraggiunge come sopraggiunge un incidente in un momento dapprima intatto. In principio è la rovina. Rovina qui è ciò che accade all’immagine a partire dal primo sguardo.» (Ivi 91). Con ciò il filosofo lasciava trasparire una supposizione valida anche per le opere di Caligaris, là dove l’irraggiungibilità del reale attraverso la rappresentazione artistica può essere spiegata anche così: «La rovina non è davanti a noi, non è né uno spettacolo né un oggetto d’amore. La rovina è l’esperienza stessa» (Ivi 92). O, come suggerisce Caligaris, il tentativo di trasporre la realtà mediante l’ arte.
Davide Dal Sasso Torino, marzo 2012
Riferimenti bibliografici
Derrida J. (1990), Mémoires d’aveugle. L’auportrait et autres ruines, Éditions de la Réunion des musées nationaux, Paris ; tr. it. di A. Cariolato e F. Ferrari, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Abscondita, Milano, 2003. McEwan I. (2007), End of the World Blues, Lecture at Stanford University, January 2007; tr. it. di S. Basso, Blues della fine del mondo, Einaudi, Torino, 2008. Shields D. (2010), Reality Hunger: A Manifesto, Vintage Books Editions, New York; tr. it. di M. Rossari, Fame di realtà, Fazi Editore, Roma, 2010.
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