venerdì 13 marzo 2009

Museo Berardo di Arte Moderna e Contemporanea



MUSEO PER L’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA


La città di Lisbona avrà presto a disposizione un nuovo spazio dedicato alla cultura e all’arte contemporanea. Sarà inaugurato il 25 giugno il nuovo Museo Berardo di Arte Moderna e Contemporanea che avrà sede all’interno del Centro Esposizioni del CCB-Centro Culturale di Belém. La direzione del Museo è stata affidata al francese Jean-François Chougnet, dal 2001 Direttore Generale del Parc de la Villette di Parigi. Tra le opere più importanti di recente acquisizione gli appassionati potranno ammirare una scultura in bronzo di Amedeo Modigliani “Tête de jeune fille” acquisita dalla collezione Berardo lo scorso mese di marzo. Il Museo ospiterà la Collezione Berardo che raccoglie oltre 860 capolavori del panorama artistico internazionale del XX e XXI, da Picasso a Andy Warhol. La collezione offre in particolare un panorama davvero completo dello sviluppo della pop art nel mondo, tra cui numerosi italiani come Pistoletto, Tadini e Rotella. Il nuovo Museo è la concretizzazione del sogno del collezionista portoghese José Berardo che spinto da una forte passione per l’arte e da una grande perseveranza è riuscito a realizzare il suo progetto grazie al contributo congiunto di risorse pubbliche e private. L’amore per l’arte ha portato José Berardo, imprenditore portoghese nato a Madeira nel 1944, ad acquistare opere d‘arte a partire dagli anni ’80. Nel corso del tempo la collezione ha continuato a crescere fino a diventare talmente ampia da essere considerata la più importante collezione d’arte del XX secolo di tutto il Portogallo. Nel 1997 viene inaugurata e aperta al pubblico la "Berardo 20th Century Art Collection" presso il Museo di Arte Moderna di Sintra. Da allora i capolavori della collezione sono spesso stati resi disponibili ad altri musei e sono stati esposti nelle mostre d’arte più importanti del mondo, dal Centro Pompidou di Parigi, alla Tate Gallery di Londra al MoMa di New York. Nuova sede della collezione è ora il Museo Berardo, all’interno del Centro Culturale di Belem. Frutto dell’ingegno di architetti di fama mondiale tra cui anche l’italiano Vittorio Gregotti, il Centro Culturale racchiude la zona monumentale di Belém, il Monastero dos Jeronimos, la Torre di Belém, e la magnifica Praça do Imperio e rappresenta il punto di divulgazione culturale a livello nazionale e internazionale. Sede di mostre, spettacoli e concerti, il Centro Culturale ospita inoltre spazi ricreativi e un centro congressi.




Per informazioni sulla Collezione Berardo:








mercoledì 11 marzo 2009

Guido Della Giovanna - Il silenzio sul mare

Napoli - dall'undici al 20 marzo 2009
Guido Della Giovanna - Il silenzio sul mare


BIBLIOTECA COMUNALE BENEDETTO CROCE

Via Francesco De Mura 2 Bis (80129)
Vomero


Nuova mostra di Guido Della Giovanna, che prende in prestito il titolo di un film di Takeshi Kitano.
orario: ore 09 /19 (sab -dom chiuso)
(possono variare, verificare sempre via telefono)
vernissage: 11 marzo 2009. ore 17,30 con reading di liriche di Adaberto Fornario tratte dal volume Faccia a Faccia lette da Alessia Di Buono .
autori: Guido della Giovanna
patrocini: Comune di Napoli V Municipalità
telefono evento: +39 3288238033
genere: arte contemporanea, personale

Hervé Ingrand / Showroom

Hervé Ingrand / Showroom
Napoli, Raucci/Santamaria

L’atelier, laboratorio dell’artista, open space di memorie e creazioni. Gli oggetti, ricercati e funzionali. Due modi diversi di fare arte. Con un occhio puntato alle collezioni di famiglia e uno verso il passato. Con un po’ di revisionismo...

Ritorno alle origini per la Galleria Raucci/Santamaria, che ha optato per uno sdoppiamento di generi insolito rispetto alla pratica espositiva a due. Se lo spazio maggiore è dedicato alle opere di Hervé Ingrand, quello più piccolo è arredato con oggetti, mobili, lampade e stampe che i due galleristi hanno raccolto in trent’anni di appassionata ricerca.
Showroom prende infatti le mosse dalla prima attività svolta dalla coppia, improntata a un commercio di oggetti realizzati da apprezzati designer italiani. Scorrono i nomi ormai storici di Ettore Sottsass con Hollywood, un vaso dalle forme vagamente futuriste; Gianfranco Frattini, autore di un mobile polimaterico in palissandro, plastica, vetro e inserti in acciaio degli anni ’60; Alvino Bagni e le sue ceramiche dagli intensi toni blu, che evocano gli abissi marini; Ludovico Diaz de Santillana e Sergio Billiotti, fondatori nel 1965 della casa di produzione di vetri per l'illuminazione e decorativi Veart.
Si battono i tempi della creatività, quando tra gli anni ’50 e gli ’80 si esce dall’Italia degli artigiani per entrare in quella del marchio “made in Italy”, esportato al di fuori dei confini nazionali; si passa agli architetti ideatori di raffinati elementi che, oltre ad avere un uso funzionale, si arricchiscono di un’estetica basata sulla sperimentazione dei materiali, in accordo talvolta con gli esiti della ricerca artistica, com’è il caso del tessuto in seta disegnato da Lucio Fontana e prodotto dalla Manifattura Jsa.
Una ripetizione dello stesso tema, con un modello unico - il proprio “studio d’artista” - riguarda invece Hervé Ingrand (Parigi, 1972), che mescola le carte di opere realizzate in passato -ma mai esposte- e di nuovi interventi realizzati su di esse, attraverso la sovrapposizione della scritta “Ein” a vari caratteri topografici e, in certi casi, con l’aggiunta di una nuova cornice.
Una cifra, il numero 1, che quasi ossessivamente ricorre non a caso in undici tele, ambientate nel suo atelier, e nel suono tipico utilizzato dagli abitanti della Francia settentrionale come esclamazione quando non si è compreso quanto detto dall’interlocutore, che suona come una storpiatura.
I due elementi si fondono con la ricerca di un promemoria. È la Pense-bête, dal nome dell’opera di Marcel Broodthaers, che nel ‘64 aveva raccolto una cinquantina di volumi invenduti del proprio poema, bloccandoli in una colata di gesso; ed è anche un nodo in cima al fazzoletto appartenuto al nonno di Ingrand, a cui è dedicata la mostra in questa sua nuova fase creativa: “Sono passato alla fase del risparmio energetico, non produco così tanto; il meno possibile”.

Il nodo al tessuto è un monito per non dimenticare il passato, senza stravolgerlo e anzi innovando, magari passando al grande formato delle figure dai richiami a Georg Baselitz di Complot Cabane (2002), finora inedito.
Prima di uscire, si sente stridere qualcosa. Ein? Cosa? Niente paura, è La boîte à ein, una scatolina dal gracchiante sound.

martedì 10 marzo 2009

Edward Hopper



MILANO, PALAZZO REALE
15 OTTOBRE 2009 > 25 GENNAIO 2010
a cura di: Carter Foster
In collaborazione con il Whitney Museum of American Art, New York

Edward Hopper, Morning sun, 1952
Columbus, Columbus Museum of Art

NEROCUBO PER NON VEDERE TUTTO NERO

NEROCUBO PER NON VEDERE TUTTO NERO

Nella Valle dell’Adige svetta un nuovissimo quattro stelle: il Nerocubohotel di Rovereto, dimora temporanea per tutti gli ospiti curiosi. Casa sicura e permanente per otto artisti contemporanei. E soprattutto non il solito art hotel. “Exibart” ne ha parlato con Paolo Pedri, immobiliarista e collezionista. Che gli imprenditori ci stiano dicendo che si può veder nero in senso positivo?

Un hotel innovativo, forziere per opere d’arte. Com’è nato il progetto? Quali sfide avete affrontato?
Già da qualche anno si era manifestata la necessità di incrementare l’offerta ricettiva di Rovereto, specie dopo l’apertura del Mart che, ricordo, riesce ad attirare più di duecentomila visitatori all’anno.

Nerocubohotel non è solo una risposta efficiente all’esigenza di nuovi posti letto, ma ambisce a essere un elemento d’attrazione in quanto tale.
Ci siamo arrivati per gradi ed è stato un crescendo: la sensazione di sentire che hai tra le mani l’opportunità di fare qualcosa di diverso... La sfida è stata quella di riuscire a sviluppare e coniugare tre distinti filoni di ricerca: un progetto architettonico e di interior design; un progetto domotico e di energie rinnovabili; un progetto artistico e culturale.

Il nome dell'hotel è Nerocubo, il volume è un agile parallelepipedo con una “pelle” esterna costituita da singole lastre in fibrocemento color ardesia. Vi siete ispirati al Black cube di Gregor Schneider?
No, le forme e l’architettura sono state ispirate dal contesto e dal paesaggio. Mi piace citare le parole dell’architetto Enrico Ferreguti: “Di fatto, per le modalità di fruizione e visibilità, esso è un edificio senza prospetti, non ci sono infatti le condizioni per una percezione statica, accurata, del complesso, che invece appare come un volume studiato per essere percepito in modo dinamico, con ‘la coda dell’occhio’, in cui gli scorci e l’assemblaggio appaiono attraenti e cangianti in modo inaspettato e reso nel contempo attraente e misterioso dalle deformazioni delle facce e dalla apparente casualità delle finestrature; stretto tra la ferrovia e l’autostrada, esso appare come dinamicamente deformato dalle potenti linee di forza che solcano longitudinalmente il paesaggio, come una roccia plasmata dal vento tesa ad assecondare, e non a opporsi, questi potenti flussi di energia”. La ricerca del nome è invece durata mesi, insieme allo studio di grafica evoq.it, con cui collaboriamo per sviluppare la comunicazione. Non sapevamo cosa volevamo, ma solo cosa non volevamo: nessun riferimento preciso e nessun richiamo diretto a qualcosa che potesse essere tangibile o immaginabile.

Come si legano l'idea di business, la struttura architettonica e la scelta di proporre opere di artisti emergenti all’interno?
È una questione di coerenza di linguaggi. Ci siamo mossi in questa direzione spinti più dalla passione che dal business, anche se le soddisfazioni economiche non dovrebbero mancare. Tutti sono alla ricerca di emozioni, specie se solo per una notte... E confido negli otto artisti: se anche solo uno farà il grande salto, il progetto potrà diventare esso stesso un business.

Qual è stata l’entità dell’investimento?
È un investimento importante, realizzato con il contributo fondamentale degli istituti di credito che credono nel progetto. Le opere sono state tutte acquistate e costituiscono la collezione dell’hotel, diventando così l’investimento nell’investimento.



MIRÓILLUSTRATORE

MIRÓILLUSTRATORE

15 marzo-14 giugno

Mostra a cura di Michele Tavola

INAUGURAZIONE

Domenica 15 marzo ore 15.30

Dopo l'interesse suscitato dalla mostra Matisse illustratore, l'Assessorato alle Politiche culturali della Città di Carpi, con il contributo di Banca Mediolanum, propone un altro appuntamento di grande qualità all'interno dello spazio espositivo della Biblioteca Multimediale A. Loria, all'insegna della scoperta del libro d'artista. Protagonista della mostra sarà il celeberrimo esponente del surrealismo spagnolo Joan Miró.

Dal 15 marzo al 14 giugno verranno presentate circa 90 opere grafiche originali di questo maestro del ventesimo secolo. Nella vasta e articolata produzione artistica di Miró, che esplorò tutte le tecniche della pittura, del disegno, della scultura e della grafica d'arte, i libri illustrati ricoprono un ruolo di fondamentale importanza, pur essendo, ancora oggi, l'aspetto della sua attività meno noto al grande pubblico. La mostra di Carpi, infatti, costituisce un evento inedito in Italia nell'ottica di fornire una visione ancor più approfondita dell'opera del maestro di Barcellona.

Le coloratissime litografie e le raffinate incisioni create per illustrare i suoi libri sono di straordinario impatto visivo. Uno dei punti di forza di questa mostra, ricca di esemplari rari e preziosi, è il Parler seul (1948-1959), in cui le poesie composte in manicomio da Tristan Tzara e le splendide forme di Miró si intrecciano e dialogano sulla pagina. Tra i numerosi libri da cui verranno tratte le opere presentate al pubblico, merita una menzione lo spettacolare Album 19, introdotto da un testo appositamente scritto da Raymond Queneau e pubblicato nel 1961 da Aimé Maeght, mercante ed editore di fiducia del nostro artista.

Parte integrante dell'esposizione è il catalogo edito da ETS (Pisa) e curato da Michele Tavola, che raccoglie originali contributi critici dello stesso Tavola e della studiosa Chiara Gatti, le schede descrittive di tutte le opere esposte (provenienti da collezioni italiane e francesi) oltre a un'intervista all'artista Valerio Adami.

Durante il periodo d'apertura è stato inoltre organizzato un ricco programma di eventi collaterali che consentiranno al pubblico di conoscere e sperimentare la ricchezza di stimoli culturali che Miró può trasmettere a chi si abbandona ai suoi stimoli. Visite guidate, laboratori e performance creative per famiglie e adulti accompagneranno il visitatore oltre la visione delle opere, per un'esperienza completa in grado di trascinare, pennelli alla mano, dentro la potenza espressiva di questo grande artista la cui poetica è moderna in ogni tempo ed oggi, forse, più attuale che mai.

Fino al 30.III.2009 Renato Mambor Napoli, Castel Sant’Elmo

Abbandonato il Parnaso con tutte le meravigliose fanciulle che lo abitano, l’artista contemporaneo ricerca le sue muse fra strade bagnate e asfalti maleodoranti; in questi casi può capitare che l’ispirazione assuma le forme non proprio aggraziate d’un camion. È quanto è accaduto a Renato Mambor (Roma, 1936), artista dell’avanguardia italiana anni ’60, al quale Napoli dedica una ricca antologica presso gli spazi di Castel Sant’ Elmo, a cura di Achille Bonito Oliva.
Mambor comincia la sua ricerca artistica nell’Italia sospesa tra sogno americano e disincanto derivato dal fallimento dei tentativi di conciliazione tra le diverse culture europee, dopo che il conflitto mondiale prima e la guerra fredda poi avevano diviso società e smembrato geografie. Come l’Europa, l’arte di Mambor non può più conciliare i diversi aspetti della vita, e la sua ragion d’essere finisce col risiedere unicamente nella forma.
È in un clima tale che il camion diventa musa (l’opera che segna questo sodalizio, Segnale Rosso su Giallo Blu, in mostra è accostata ad altre più tarde, esplicitando in tal modo il suo essere progenitrice di tutta la poetica del romano): l’artista, infatti, recupera, dalla segnaletica per il trasporto su quattro ruote l’idea di adottare segni impersonali, riconoscibili in quanto tali, in-identificativi e tuttavia capaci di veicolare una funzione informativa. Il loro esser simboli, dunque, non ha carattere funzionale, bensì sostanziale, perché è a partire dal semplice assunto formale che lo spettatore può vestire il segno di una valenza che arricchisce la sua oggettività.

Ne è un esempio Separé, installazione-scultura in cui sagome umane atteggiate in vario modo si aprono su pannelli retrostanti, su cui sono applicati materiali diversi. Ciascuna coppia appare come un microcosmo incompiuto: i vari elementi che la costituiscono sono in attesa di relazione: la possibilità per la sagoma e l’oggetto di interagire è data unicamente da tutte le loro possibili interpretazioni. “C’è sempre”, dice l’artista, “un qualcosa che lo spettatore deve completare. La mia opera comincia da me e finisce nell’occhio dello spettatore”.La volontà di chiamare quest’ultimo a completare il formalismo dell’opera, aggiungendo valori nuovi alla forma data dall’artista, la ritroviamo in Karma Immutabile e Ombra Immutabile - entrambe presentate in occasione della 52esima Biennale di Venezia -, dove accostare sagome di uomini-ombra bianche e nere, positive e negative, è funzionale alla possibilità dello spettatore di ricondurle alla sostanziale unità della matrice, “nella quale solo esiste la possibilità di un mutamento” che le riguardi.
Dal segno iconico, Mambor passa a delegare al linguaggio il compito d’impaginare nuovi rapporti tra le immagini. I Diari - quelli personali del 1967 e del 2007, passando per quelli del 1969 realizzati in collaborazione con gli amici artisti - sono opere imperniate su un attrito fra immagine immobile, costituita da un oggetto facilmente riconoscibile nonostante la sua sintesi formale, e azione rivelata dal titolo, solitamente un verbo coerente con la destinazione d’uso dell’oggetto stesso.

In questo caso il funzionamento razionale dell’opera si compie nell’atto stesso del suo essere percepito. Ancora una volta, il simbolo si demitizza, questa volta superato dal linguaggio, che ne suggerisce una complessità sempre e soltanto formale, imponendosi come necessario a completare il senso di un’arte che, altrimenti, rimarrebbe oggetto inerte, pigra superficie.
L’idea del movimento mentale come necessità per risalire al valore dalla forma del simbolo si concretizza in un atto fisico nella scultorea Circolare, una sorta di lanterna magica intorno alla quale l’uomo-bambino è chiamato a correre. Per ricevere l’impressione del movimento di un anonimo viandante disegnato sulle pareti interne dell’esagono.

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