Nata per coronare la proficua collaborazione tra la Gam di Ferrara e le istituzioni bolognesi di Mambo e l’ospitante Museo Morandi, l’esposizione dedicata al pittore ferrarese è stata pensata fra i capolavori permanenti dell’ormai tributatissimo Giorgio Morandi.
La scelta intende chiaramente stabilire un legame fra i due artisti; ma se si percepisce certo una correlazione più immediata fra il maestro bolognese e Filippo de Pisis (Ferrara, 1896 - Milano, 1956) rispetto ai precedenti ospiti, i coniugi Becher, parallelamente il confronto risulta meno stimolante e ardito.
I due celeberrimi emilian-romagnoli ebbero rapporti già in vita, e certo il comune milieu culturale di provenienza facilitò la vicinanza negli esiti pittorici ed estetici. Guardando alle nature morte che sfilano silenziose, il parallelo si fa decisamente palpabile. I malinconici vasetti dai colori smorzati, che custodiscono fiori altrettanto eterei, richiedono una modalità di contemplazione a cui i visitatori del Museo Morandi sono già avvezzi.
Un sentimento d’inquietudine esistenziale fa da trait d’union fra i lavori, filo conduttore che combacia con la tematica dell’approfondimento specifico che intende indagare l’esposizione, che si sofferma esclusivamente sul periodo compreso fra il rientro in Italia di de Pisis, avvenuto nel ’39, e la sua morte.
Un finale di vita emotivamente travagliato - emblematico il definitivo ricovero in clinica psichiatrica -, che determina un parallelo cambio di rotta nelle modalità espressive dell’artista, il quale passa alla scarsezza dei tratti, all’evanescenza acquosa dei colori, trasformati all’occasione in bruni cupamente smorzati.
Ne sono la prova la serie di disegni a tecnica mista che costituiscono la sezione più suggestiva del percorso. I nudi maschili, fugaci e instabili apparizioni di linee tormentate, sono la più alta manifestazione di questo accentuato espressionismo, di cui s’è scritto recentemente. Il sentimento drammatico dei disegni si ripercuote sull’intenso Ritratto di Allegro (1940), in cui spazi di colore inconsistente riempiono in maniera brusca i tratti già scarni del giovane.
Della più famosa produzione di vedute, affinata nella tecnica e nella poetica durante i soggiorni all’estero - attività che fece sostenere ad Arcangeli che de Pisis fosse “il più grande vedutista del secolo” - rimangono le riproduzioni dei luoghi a lui più familiari dopo il rientro in Italia: la milanese Via Omenoni (1942) e il Cortile di via Rugabella (1943), dove trasferì il suo studio d’artista.
Pur nell’oscurità dei toni, che fanno immaginare atmosfere crepuscolari, la pennellata è quella stessa sferzata, veloce e nervosa che aveva appreso durante le sue sedute en plein air parigine e londinesi.
La scelta intende chiaramente stabilire un legame fra i due artisti; ma se si percepisce certo una correlazione più immediata fra il maestro bolognese e Filippo de Pisis (Ferrara, 1896 - Milano, 1956) rispetto ai precedenti ospiti, i coniugi Becher, parallelamente il confronto risulta meno stimolante e ardito.
I due celeberrimi emilian-romagnoli ebbero rapporti già in vita, e certo il comune milieu culturale di provenienza facilitò la vicinanza negli esiti pittorici ed estetici. Guardando alle nature morte che sfilano silenziose, il parallelo si fa decisamente palpabile. I malinconici vasetti dai colori smorzati, che custodiscono fiori altrettanto eterei, richiedono una modalità di contemplazione a cui i visitatori del Museo Morandi sono già avvezzi.
Un sentimento d’inquietudine esistenziale fa da trait d’union fra i lavori, filo conduttore che combacia con la tematica dell’approfondimento specifico che intende indagare l’esposizione, che si sofferma esclusivamente sul periodo compreso fra il rientro in Italia di de Pisis, avvenuto nel ’39, e la sua morte.
Un finale di vita emotivamente travagliato - emblematico il definitivo ricovero in clinica psichiatrica -, che determina un parallelo cambio di rotta nelle modalità espressive dell’artista, il quale passa alla scarsezza dei tratti, all’evanescenza acquosa dei colori, trasformati all’occasione in bruni cupamente smorzati.
Ne sono la prova la serie di disegni a tecnica mista che costituiscono la sezione più suggestiva del percorso. I nudi maschili, fugaci e instabili apparizioni di linee tormentate, sono la più alta manifestazione di questo accentuato espressionismo, di cui s’è scritto recentemente. Il sentimento drammatico dei disegni si ripercuote sull’intenso Ritratto di Allegro (1940), in cui spazi di colore inconsistente riempiono in maniera brusca i tratti già scarni del giovane.
Della più famosa produzione di vedute, affinata nella tecnica e nella poetica durante i soggiorni all’estero - attività che fece sostenere ad Arcangeli che de Pisis fosse “il più grande vedutista del secolo” - rimangono le riproduzioni dei luoghi a lui più familiari dopo il rientro in Italia: la milanese Via Omenoni (1942) e il Cortile di via Rugabella (1943), dove trasferì il suo studio d’artista.
Pur nell’oscurità dei toni, che fanno immaginare atmosfere crepuscolari, la pennellata è quella stessa sferzata, veloce e nervosa che aveva appreso durante le sue sedute en plein air parigine e londinesi.
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