I paesaggi e la natura dell’arte
Benevento, Arcos
Nel cuore antico di Benevento ci s’immerge nel paesaggio contemporaneo. A coglier le essenze più disparate della natura. Con gli occhi sui materiali e la mente altrove. Tra gli archi di Arcos e gli echi di Eccher...
Ancora guidato dal pretesto tematico, il Museo d’Arte Contemporanea del Sannio diventa questa volta mecenate di venticinque differenti intercettazioni dell’inesauribile voce di Madre Natura.
L’evento s’incastra all’interno di un ventaglio di attività, promosse dalla Provincia di Benevento e dall’Assessorato al Turismo, insieme ai Beni Culturali della Regione Campania, per presentare in cornice le proposte del territorio e diventare un’occasione in più di richiamo e attrazione per i visitatori.
L’argomento è antico e complesso. E allora si comincia dolcemente, con la testa nelle favole. Entrando ci accoglie la “bellezza pericolosa” di Francesco Simeti, la natura rigogliosa che si bagna nel dolore prima di esser ricoperta di fiori e foglie, divenuta per l’occasione un parato di minuscoli Bambi ripetuti ossessivamente. Quanto basta per risvegliare il bambino che è in noi, caricandolo dopo un solo respiro della stessa angosciante paura impadronitasi del piccolo cerbiatto che avanza alla ricerca della mamma.
Poi l’occhio si addentra. Attratto dalla naturale deperibilità dei cavolfiori o dei coni al gusto di pistacchio e fragola di Mario Merz. E curiosamente rapito da sei sacchi colmi di carbone, esposti lì accanto su due scansie da Jannis Kounellis, come indizio provocatorio di una natura operosa e sotterranea.
Finché la mente si ferma. Dentro la malinconia dei pensieri di Germano Sartelli, di fronte alle ragnatele polverose e a semplici nidi di paglia, evocatori di odori e sapori di un mondo povero e quotidiano. O nel profumo fortemente simbolico di cera d’api delle imbarcazioni di Wolfgang Laib, davanti a lignee testimonianze di una cultura primitiva e agricola.
In ogni ambiente si respira un sentimento personale di mistero o sogno, che la musica - laddove è presente - contribuisce a riempire di ricordi ancestrali. Come nel video di Guido van der Werve, in cui la natura è innanzitutto un luogo intimo, in cui immergersi con lentezza per tentare di raggiungere quello che la realtà non è in grado di svelare immediatamente.
Il genio ama confondere e alla fine del percorso si giunge carichi d’idee, angosce e felicità. Impauriti anche per la piccolezza umana di fronte allo spettacolo infinito e inspiegabile dell’universo. Come i fiori a colori e le bacche rosso fuoco, inquietanti nella loro intramontabile banalità, recisi da Marc Quinn, o il meteorite di polistirolo puntinato di lenticchie catapultato sulla terra da Gianni Caravaggio. Nel puzzo eterno e nauseabondo di morte, tanto caro a Hermann Nitsch, che si sprigiona dal fondo di un secchio cimiteriale colmo d’acqua e di gerbere. Mentre sembrano riecheggiare i versi: “Caggiono i regni intanto / Passano genti e linguaggi: ella nol vede / E l’uomo d’eternità s’arroga il vanto”.
La panoramica - come tutte le collettive - dona e sottrae, regala e ruba, soggiogando lo sguardo a continue sorprese e spingendo le tonalità dell’animo verso la natura più disuguale, attraverso sentieri verdi d’erba o grigi di ciottoli. Guidati da una didascalia non puntuale, che costringe in qualche caso a guardarsi indietro e ragionare. Pertanto, a pensarci, va bene così.
L’evento s’incastra all’interno di un ventaglio di attività, promosse dalla Provincia di Benevento e dall’Assessorato al Turismo, insieme ai Beni Culturali della Regione Campania, per presentare in cornice le proposte del territorio e diventare un’occasione in più di richiamo e attrazione per i visitatori.
L’argomento è antico e complesso. E allora si comincia dolcemente, con la testa nelle favole. Entrando ci accoglie la “bellezza pericolosa” di Francesco Simeti, la natura rigogliosa che si bagna nel dolore prima di esser ricoperta di fiori e foglie, divenuta per l’occasione un parato di minuscoli Bambi ripetuti ossessivamente. Quanto basta per risvegliare il bambino che è in noi, caricandolo dopo un solo respiro della stessa angosciante paura impadronitasi del piccolo cerbiatto che avanza alla ricerca della mamma.
Poi l’occhio si addentra. Attratto dalla naturale deperibilità dei cavolfiori o dei coni al gusto di pistacchio e fragola di Mario Merz. E curiosamente rapito da sei sacchi colmi di carbone, esposti lì accanto su due scansie da Jannis Kounellis, come indizio provocatorio di una natura operosa e sotterranea.
Finché la mente si ferma. Dentro la malinconia dei pensieri di Germano Sartelli, di fronte alle ragnatele polverose e a semplici nidi di paglia, evocatori di odori e sapori di un mondo povero e quotidiano. O nel profumo fortemente simbolico di cera d’api delle imbarcazioni di Wolfgang Laib, davanti a lignee testimonianze di una cultura primitiva e agricola.
In ogni ambiente si respira un sentimento personale di mistero o sogno, che la musica - laddove è presente - contribuisce a riempire di ricordi ancestrali. Come nel video di Guido van der Werve, in cui la natura è innanzitutto un luogo intimo, in cui immergersi con lentezza per tentare di raggiungere quello che la realtà non è in grado di svelare immediatamente.
Il genio ama confondere e alla fine del percorso si giunge carichi d’idee, angosce e felicità. Impauriti anche per la piccolezza umana di fronte allo spettacolo infinito e inspiegabile dell’universo. Come i fiori a colori e le bacche rosso fuoco, inquietanti nella loro intramontabile banalità, recisi da Marc Quinn, o il meteorite di polistirolo puntinato di lenticchie catapultato sulla terra da Gianni Caravaggio. Nel puzzo eterno e nauseabondo di morte, tanto caro a Hermann Nitsch, che si sprigiona dal fondo di un secchio cimiteriale colmo d’acqua e di gerbere. Mentre sembrano riecheggiare i versi: “Caggiono i regni intanto / Passano genti e linguaggi: ella nol vede / E l’uomo d’eternità s’arroga il vanto”.
La panoramica - come tutte le collettive - dona e sottrae, regala e ruba, soggiogando lo sguardo a continue sorprese e spingendo le tonalità dell’animo verso la natura più disuguale, attraverso sentieri verdi d’erba o grigi di ciottoli. Guidati da una didascalia non puntuale, che costringe in qualche caso a guardarsi indietro e ragionare. Pertanto, a pensarci, va bene così.
Nessun commento:
Posta un commento