Milano - dal 15 gennaio al 6 febbraio 2011
Virgilio Patarini - Ex-Po(st) 2011
Virgilio Patarini - Ex-Po(st) 2011
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Le opere di Patarini riprendono un ‘discorso scenografico’ che l’autore inizia già alla fine degli anni Ottanta come autore e regista teatrale, e che resta tra i punti nodali della sua poetica anche come artista visivo, fondata su una teatralità finalizzata ad interloquire con il pubblico. R.D. | |
orario: Dal mercoledì alla domenica ore 11-13 e 14-18. Lunedì e martedì chiuso. (possono variare, verificare sempre via telefono) | |
biglietti: free admittance | |
vernissage: 15 gennaio 2011. ORE 18.30 | |
catalogo: catalogo edizioni Zamenhof Art | |
curatori: Rosamaria Desiderio, Cristina Stashkevich | |
autori: Virgilio Patarini | |
note: A cura di Rosamaria Desiderio e Cristina Stashkevich con la collaborazione di Cristina Gutierrez e la supervisione di Valentina Carrera. In mostra oltre cento opere tra quadri, sculture e installazioni. | |
genere: arte contemporanea, personale NOTE DI PRESENTAZIONE Come le pagine di un libro Nell’arte di Virgilio Patarini si possono distinguere periodi, cicli e fasi che si susseguono come le pagine di un libro. Non a caso utilizzo la metafora del libro. Il libro infatti è uno degli elementi centrali nelle opere di quest’artista. Il Libro come Letteratura, il Libro come Storia, il Libro come Oggetto e Fetish, come una sorta di “alter-ego” dell’artista. Il Libro come Letteratura si rivela in una serie di lavori nei quali Virgilio Patarini usa la trama delle opere letterarie di autori come, ad esempio, Shakespeare o Dostoevskij, cita dei brani o incolla pagine sulla tela. Lavori come l’installazione “Sweet Ophelia’s lips, sweet Ophelia sleeps” (2009) o il ciclo dei quadri “Appunti dal sottosuolo” (2003) possono servire da esempio per quest’argomento. Nel primo caso citato l’artista interpreta la storia della protagonista shakespeariana, cercando di penetrare nella sostanza di questo personaggio sulle tracce di nuovi sensi. L’uso degli oggetti, la tecnica, la struttura, la risoluzione della composizione di questa opera approntano delle metafore che stimolano nello spettatore il desiderio di decifrare il mistero di Ophelia. Ogni dettaglio non è casuale. Vorrei sottolineare anche il gioco di parole nel titolo, procedimento a cui Virgilio Patarini si rivolge spesso. Il ciclo di quadri “Appunti dal sottosuolo” è interamente dedicato al lavoro omonimo di Dostoevskij. Chi ha consuetudine con questo scrittore, con facilità riconoscerà nelle opere di Patarini l’oscurità, l’inquietudine, la profondità, la magia e la segretezza che distingue il genio di Dostoevskij. Nei toni tenebrosi di questo ciclo, nelle pagine del racconto incollate sulla tela in tale modo che si creai la sensazione della loro lenta sparizione, della loro dissoluzione nel sottosuolo. È come se si sentisse l’odore dell’umidità, il freddo del terreno e ci si unisse al protagonista del racconto. Il Libro come Storia è un aspetto rilevante che include i concetti principali che passano come un filo rosso attraverso tutta l’arte di Virgilio Patarini: il concetto della presenza e della assenza, del passato e del presente, della sparizione e della distruzione sia nel tempo che nello spazio. L’artista spesso usa proprio i libri vecchi, nei quali vive la Storia, nei quali si può incontrare il Tempo. (…) Nel caso del Libro come Oggetto e Fetish occorre affrontare la questione del ready-made nell’arte di Virgilio Patarini: veri libri presentati interamente e intatti come parte dell’opera, le pagine strappate ecc. Gli oggetti estratti dalla quotidianità e messi nell’opera d’arte acquisiscono un nuovo stato, diventono art-objects. In questa trasformazione del contesto c’è una specie di sacralizzazione, di feticizzazione del libro. La cosiddetta mitizzazione è specialmente evidente nel quadro “Il fiore e la parola” (2010) dove un vecchio libro enorme legato alla tela con una corda pende dall’alto a guisa di Cristo sul crocefisso. In quest’opera c’è il culto del libro, e quando qualcuno la osserva è come se la divinizzasse. Ma è significativo che nello stesso tempo Virgilio Patarini in alcuni lavori, al contrario, desacralizzi il libro: egli strappa le pagine, lo distrugge, lo ricopre con i colori, come se disprezzasse il suo valore, intendendolo solo come oggetto materiale, che in questo caso diventa il materiale per la creazione, pur preservando l’importanza al testo contenuto. Oggi gli artisti dipingono anche con il suono, con l’odore, con il loro corpo e infine con il testo. Loro inseriscono lettere nelle tele, mettono frasi nelle sculture, collegano le parole con le immagini per erigere nuovi ponti tra loro e gli spettatori. Esistono limiti in arte? Questa mostra personale di Virgilio Patarini è una mostra d’arte, ma di un’arte in cui trovano posto le lettere, le parole e le frasi. È una sorta della dimostrazione del fatto che il testo e l’arte figurativa non sono poli diversi, ma sono due elementi ausiliari che aprono nuove strade per la raffigurazione delle idee. Cristina Stashkevich Riflessioni di scena Le installazioni di Patarini riprendono un “discorso scenografico” che l’autore inizia già alla fine degli anni Ottanta come autore e regista teatrale, e che resta certamente tra i punti nodali della sua poetica anche come artista visivo, fondata su una teatralità finalizzata ad interloquire con il pubblico. Nascono da spunti di riflessione che nell’atto della creazione si nutrono di continui flussi di uno speciale spirito, una sorta di un connubio tra istinto e ispirazione che conduce il “gioco” della creazione, fino al raggiungimento di una relativa compiutezza. L’atto della creazione, in realtà, potrebbe perpetuarsi in un processo continuo che non ha origine né fine e che offre proprio per questo una innumerevole varietà di interpretazioni e significati, nell’intento di dialogare con l’osservatore, inserendolo nell’opera per arrivare alla sua coscienza, stimolando meditazione e riflessione attraverso un forte coinvolgimento sensoriale. Le installazioni di Patarini, in un contesto di dimensione corale, raccolgono-racchiudono non solo l’anima, il gioco, il tormento, la riflessione dell’artista, ma diventano “altro” nutrendosi delle chiavi di lettura offerte dallo spettatore in un processo di continuo arricchimento. Si tratta di opere in cui viene ridotto al minimo l’intervento dell’artista e la creazione viene abbandonata al suo destino, connettendosi solo al luogo e al momento in cui si esprime, in netta antitesi con il principio della riproducibilità seriale dell’opera d’arte. I materiali utilizzati sono tipici ed indicano molto spesso delle intenzioni, delle scelte precise. Si tratta di materiali di riciclo: vecchie botti, ferro, stracci, cemento, mobili consumati dal tempo. Non v’è necessità di soffermarsi sulla carica poetica e simbolica che tali materiali hanno, quanto piuttosto sul rapporto personale, biografico, affettivo che intercorre tra l’artista e questi materiali, che provengono dalla tradizione contadina e familiare. Sono cimeli e al tempo stesso sono simboli e ci parlano di miti, di drammi dell’esistenza, di sogni infranti, di attese perpetue. E in atmosfere di questo tipo incontriamo Ofelia rappresentata dall’”abito leggero dell’innocenza che vola tra l’erba sulla riva di un torrente in piena” per posarsi poi su di un letto di cemento con ai piedi un fiore di cemento, vittima del tormento e della follia d’amore. “Il grande mare che avremmo attraversato” immerge invece lo spettatore in un’atmosfera atemporale, pervasa da uno stato di forte sospensione e tensione verso un sogno che non è né realizzato né infranto e, nella sua tensione, in questo sentimento di speranza, come mezzo per navigare il “Grande mare”, compare una fragile barchetta di carta. Dalle poetiche atmosfere del “Grande Mare” si passa poi ad una proiezione verso il futuro con l’opera “Ex-po(st) 2015”, una riflessione sull’uomo moderno e sull’ambiente che lo circonda, in questo caso la città. Il forte contrasto fra i materiali usati (cerchi di botti antiche montati su un cubo di plexiglass, ricoperto parzialmente da riproduzioni dell’uomo vitruviano di Leonardo e da riproduzioni di mappe antiche della città di Milano) rappresenta simbolicamente la ricerca, l’indagine sull’identità dell’uomo moderno, in un percorso che va dall’arcaico -rievocato sia dalla forma del cerchio che dal materiale che lo compone- al moderno -cubo in plexiglass-, attraverso l’uomo di Leonardo -supposta rappresentazione della ricerca di una perfetta armonia di proporzioni, il quadrato inscritto all’interno di un cerchio. L’opera rievoca un rapporto ricco di contrasti tra la forte spinta alienante della metropoli contemporanea, che tanto offre, ma in realtà tanto toglie, ponendosi come madre assente, e l’ipotesi, rievocata dalle mappe antiche, di una città vista come madre accogliente, idea di un luogo che abbraccia l’uomo. Sorge una riflessione sulla città come luogo che per quanto ideale, o di fatto ricco di controversie rimane, resta infine comunque un palcoscenico sul quale ancora una volta è esclusivamente l’uomo (lo spettatore) l’unico protagonista dell’opera, sia essa tragedia o commedia, di quell’atto unico che si chiama vita. Rosamaria Desiderio |
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