genere: arte contemporanea, personale
comunicato stampa
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Che sensazione tattile ha il pennello intriso di colore a olio quando passa sulla tela? Certo, alcune performance moderne come la body art o l’action painting ci hanno abituato a cogliere il nesso fra gesto e opera, magari nella forma di cortocircuito del gesto eclatante, ma anche l’arte della tradizione ha una dimensione fisica, “fattiva” che a volte trascuriamo. La virtualità di molto del nostro agire quotidiano relega sullo sfondo, porta a trascurare tout court il momento del fare. Pochi giovani ormai guardano come una cosa è realizzata, con cosa, in quanto tempo. Se una tecnica ripropone come ineludibili queste domande, se una tecnica ci riporta indietro al gesto questa è l’affresco, arte antichissima, come si sa, orgoglio di tanta della nostra tradizione, ma soprattutto arte difficile perché il dipinto nasce solo da una conoscenza “sapienziale” di tempi (asciugatura dello strato, assorbimento del colore) e materiali (malte, calce). Si dipinge sulla traccia di una sinopia fatta a matita e via via coperta, cioè si dipinge a memoria, rincorrendo un’idea nell’attimo in cui la si cancella, nell’urgenza della malta che si va asciugando. Arte difficile, che pochi affrontano per evidenti ragioni, ma arte destinata a durare nel tempo, questo sì, almeno finchè regge l’edificio che la ospita, arte destinata a diventare spazio umano, in cui vivere. Alessandro Lazzer ti racconta del suo lento avvicinamento a quest’arte, magari di una coincidenza di incontri con figure importanti, o simpaticamente di una contiguità con il proprio mestiere di geometra, che sempre di muri si va occupando. Ma anche una veloce occhiata al percorso pittorico che gelosamente conserva nella sua casa-laboratorio porta a immaginare qualcosa di più, come un’affinità originaria con una tecnica che era lì ad aspettarlo, in cui più felicemente si viene dispiegando una volontà espressiva già messa alla prova via via in tanti ambiti diversi. Ognuno di noi, a volte un po’ per caso, trova l’angolo che gli si confà, quell’insieme di ritmo, tatto, tempo che è in sintonia con la nostra natura. Il salto di qualità indubitabile che l’affresco ha consentito a questo artista nasce dalla perfetta consonanza con questa tecnica “lenta”, materica, artigianale. Si tratta di un difficile equilibrio, magari dell’ampiezza di concezione che sta a suo agio nello spazio dilatato e fatica a stare nel chiuso della tela (e infatti quando può si estende alla parete), oppure la consonanza con i gesti che un artista sente come propri. L’affresco consente una pittura rapida, in cui si blocca un’impressione e in cui i dettagli, se mai andassero aggiunti, risulterebbero comunque posticci, innaturali. E’ il territorio del tratto rapido, delle campiture sfumate e sicure, senza ripensamenti. Nelle opere di Lazzer i confini sono certi, definiti da tratti decisi e veloci a separare campi di colore pastello che rispondono a una visione già compiuta dell’insieme, a un’idea che sta prima ancora di mettersi a impastare sabbie e leganti. In questa forza compositiva, nella capacità di pre-vedere, appunto, ci pare stia il segreto che ha portato questo pittore ad esprimere il meglio di sè proprio in un settore così particolare del fare artistico. I soggetti sono paesaggi dominati da costruzioni, case e muri addossati ed essenzializzati fino a ricordare certi paesaggi mediterranei delle Cicladi, fatti di case senza tetto, semplice muro giustapposto ad altri muri, e già in questo cortocircuito fra soggetto architettonico e “pittura per l’architettura”, quale di fatto è l’affresco, pare di grande modernità e interesse. Come di grande interesse e modernità è il passaggio (in comune con il mosaico) dalla destinazione parietale originaria alla “portabilità” di un supporto contenuto, uno slittamento interessante che consente effetti di significativo straniamento. Ma insisterei qui sul tema della memoria, cioè su quello spazio che sta fra la concezione e la realizzazione, un tempo visualizzato dalla sinopia, ora forse neppure. Uno spazio inesistente nella pittura normale ma che l’affresco obbliga a ricreare, quella sosta, immagino, in cui devi tener calda l’idea mentre impasti o stendi sottili strati di intonaco. Il dato tecnico come sempre diventa importante perché è in questo spazio che il paesaggio di Lazzer diventa lirico, ovvero si carica di una capacità sognante, si dilata nel tempo, si allontana e si trasfigura. L’intonaco dà al quadro una corposità reale, materica, ma sul versante opposto il soggetto subisce una rarefazione complementare nel colore, forse, nelle linee prospettiche che lo collocano in un tempo indefinito, singolarmente impalpabile. Curiosa ed efficacissima contraddizione, a mio avviso, in questa dialettica fra materia e visione, concretezza e astrazione, in cui sta la vera forza di queste opere. La tavola è muro, certo, ma l’opera è avvolta da una pacatezza lirica che la rende leggera, immateriale. “Vado cercando supporti leggeri per ridurre il peso” mi confida Lazzer, alludendo ancora una volta a un dato tecnico, ma a ridurre il peso è soprattutto la levità della sua pittura. Che è poi la tradizionale funzione dell’affresco, o del mosaico, credo, quella cioè di alleggerire le architetture, di far lievitare gli spazi trasformando blocchi pesanti in atmosfere rarefatte, pietre in prospettive. Lo stesso si coglie anche in altre linee della produzione di Lazzer, magari non rappresentate in questa mostra, come in certi esperimenti di decorazione musiva medioevale, fatta di pattern ripetuti, interrotti anche sul pannello dalle aree “nude”, svuotate dall’usura del tempo, in contrasti suggestivi. Oppure nella linea più recente verso cui l’artista si orienta, quella di un nuovo figurativo in cui la figura umana è riproposta con vigore di linee e movimento, pulita ed elegante come le architetture di cui si è parlato (penso a una splendida maternità che davvero rimanda alla grande stagione del nostro disegno rinascimentale). E stimoli nuovi vengono ancora dall’attenzione che egli pone a tecniche e figure lontane nello spazio, da certi dipinti rupestri australiani a forme decorative tipiche dell’arte islamica, eredità di viaggi ma sicuramente stimoli da ripensare via via in nuove linee di ricerca. Ma, pur nella brevità di questa riflessione, mi preme sottolineare gli elmenti novità che la tecnica antica presenta in questa sua ultima e insperata stagione. Vi è una sorta di rinnovamento del’affresco che non resta passivo davanti alla modernità, ed è un dato importante da tener presente. Si osservino nei pannelli di Lazzer le tracce sicure e profonde della matita che portano a galla la sinopia, ne fanno un tutt’uno con il colore, e affondano nel sottile strato di malta come a incidere, scavare, al di là di quella levigatezza uniforme a cui la tradizione invece ci aveva abituato. Si veda il ricorso a volte a resine, pigmenti compatti ed estranei alla tradizione che creano interessanti contrasti con la porosità e la granulosità dell”a fresco”. Segno che non solo di sapienza antica si tratta, di paziente recupero di una tecnica morta, magari un po’ aristocratico, ma di una affascinante ibridazione con la modernità, di un dialogo fecondo, a volte perfino provocatorio. Lo si nota anche in un’altra serie di opere,quelle in cui il soggetto è costituito da decorazioni di foglie, rami allungati ad attraversare l’intera superficie dipinta. Linee aguzze, incise letteralmente sul materiali di sfondo, capaci di ricordare al tempo stesso certe decorazioni antiche di qualche casa pompeiana ma anche di proiettarci verso la modernità proprio per l’insistito taglio geometrico, per la rapidità e la velocità che riescono a suggerire. Alla morbidezza antica si affianca un modo attualissimo, inedito, di gestire la superficie e le figure, creando effetti singolari di contrasto. La malta, il colore, la sensibilità dell’artista parlano ogni tempo, anzi, come per miracolo, sanno raccordare le cose e le figure come fossero fuori dal tempo. Paolo Venti
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